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Adozione: quant’è dura l’avventura

Sogno o chimera? Umanità o disumanità? Quante sono le coppie che in Italia esprimono il loro desiderio di genitorialità rivolgendosi prima alla PMA e poi all’adozione di un minore… E quante sbattono la faccia contro una realtà inimmaginata e spietata! 

Prima devi fare i conti con l’infertilità, poi con il percorso adottivo.

Si dice che non tutte le ciambelle vengono col buco. Ecco, a me è capitata quella senza (e non credo di essere la sola). Già, perché il percorso verso la genitorialità è stato non solo complesso, sentito, pesante, psicologicamente logorante e a tratti penoso (e poi spiegherò perché) ma anche profondamente degradante. Mi sono sentita come una mucca su un ipotetico rullo che attende di entrare nella stanza del macello. Con un numero stampato addosso.

Premetto. Quando arrivi alla decisione di adottare, come ben sanno tantissime donne, hai già provato a diventare un genitore biologico. Hai quindi passato diversi steps che già di per se’ sono logoranti: provi le vie naturali, poi dopo vari tentativi inizi a pensare di rivolgerti allo specialista, poi a un centro di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA), le provi tutte, ma proprio tutte (tipo ti fai bombardare di ormoni incrociando le dita per la tua salute), anche la fivet (che magari hai faticato ad accettare), ma non c’è niente da fare. Allora attraversi mezza Italia perché in un paesino sperduto c’è un dottore vecchio stampo che ottiene risultati miracolosi. Ma non con te. E così arrivi a capire che, pazienza, non era proprio destino (poi magari sono finiti anche i soldi perché tutto questo ha un costo! E neanche poco). Lasci passare un po’ di tempo, ci scappa anche qualche seduta di terapia perché magari il percorso non è stato così all’acqua di rose. Poi pensi che al mondo c’è chi non ha avuto problemi a concepire, ma i figli li abbandona per strada. E allora tac, idea geniale: io il mio bimbo lo adotterò!

Bene, benissimo. Però c’è un problemino: che in Italia il numero di coppie richiedenti supera di gran lunga la disponibilità di bimbi abbandonati (in realtà si dice “dichiarati adottabili”). E, a meno che tu e il tuo partner siate giovani (ma quando mai, hai impiegato anni se non più di un decennio dietro alla trafila di cui sopra), ti confronterai con la dura realtà che non sei più competitiva. Quindi? Arrivi all’idea di affrontare l’adozione internazionale. E qui si apre un capitolo a parte (in realtà si è già aperto con l’adozione nazionale).

Se hai già iniziato l’iter adottivo lo sai già. Se invece non hai ancora iniziato, beh cambia pagina, leggiti qualcos’altro perché se continui a stare qui potrebbe passarti la voglia.

Dunque dicevo. L’adozione nazionale e internazionale (stai ancora leggendo? Peggio per te, t’ho avvisata). Che poi la prima parte del percorso adottivo è uguale. Già perché anche chi decide subito di saltare il tentativo nazionale, deve comunque essere dichiarato idoneo dal giudice del Tribunale dei Minorenni (che prevede lo stesso protocollo). Non il singolo, sia ben inteso, ma la coppia. E qui si apre uno splendido capitolo. Ogni regione ha il suo sistema (che non mi sembra sia onesto né normale in un paese civile). E se hai la sventura di vivere in Toscana, devi passare per un purgatorio di due/tre anni prima di vederti aggiudicare l’agognata sentenza (che è solo il trampolino di lancio per proseguire l’iter internazionale e che, ad ogni modo, non ti dà alcuna garanzia di vederti assegnare un minore per la via nazionale).

In genere ci sono centri per l’adozione (dell’USL) che supportano le coppie aspiranti dando loro le informazioni necessarie. Quando arrivai a fare la mia prima telefonata “perlustrativa”, ormai avevo superato ogni disagio riguardante la mia incapacità di procreare. Ero serena e piena di ottimismo per iniziare l’avventura che avrebbe segnato per sempre la mia vita. Ero gasatissima!

Piansi al telefono e per le successive 48 ore. Quello fu il preludio, e ciò che seguì non fu più divertente di così.

Già, perché il primo obiettivo dell’assistente sociale fu quello di sbattermi in faccia che ero una donna fallita nella mia femminilità. Non fu apertamente sgarbata, ma quello fu il senso del suo approccio, che andò avanti per circa quaranta interminabili minuti in cui cercavo di porre domande ma venivo sommersa dalle sue, poco “delicate”.

Mi brontolò anche in modo affettato per aver osato informarmi, per altre vie, circa la presentazione della domanda al Tribunale (dei Minori): macché Tribunale, dovevamo prima essere valutati per bene da loro, fare corsi, colloqui, esami e poi se ne sarebbe riparlato. E se osavamo contattare il Tribunale ci avrebbero rispediti indietro. Scusa se siamo nel ventunesimo secolo e la gente fa ricerche per informarsi. Vabbè, andiamo oltre.

La telefonata la feci a giugno e il corso, insieme a tante altre coppie aspiranti, lo iniziammo a ottobre. Già qui si capiscono i tempi diluiti. Ci vollero un paio di mesi, poi uno stop tecnico in attesa dei colloqui con la psicologa e poi con l’assistente sociale. Di coppia e poi face to face. Si chiama indagine conoscitiva. Già, perché devono essere veramente tanto sicuri che non siete gente brutta e cattiva. Sapete il bello? Non ha neanche senso. Già perché in caso di parere negativo all’adozione da parte dell’USL (ROA), la coppia può comunque fare ricorso alla Corte d’Appello e avere molte chances di vincere. Ma questo lo scopri alla fine (tanto comunque devi avere il loro parere perché altrimenti il tribunale non ricevere la domanda).

Tutto questo durò altri mesi e mesi (in cui dovemmo anche sottoporci a esami medici, con i soliti tempi diluiti dell’assistenza sanitaria locale, a cui devi per forza rivolgerti) e arrivammo al dunque al giugno successivo: finalmente avevamo i documenti (una montagna) da portare al Tribunale dei Minori. Finita lì? Neanche per idea. Il passaggio seguente ci costò altri dodici mesi: un giudice onorario doveva avere il tempo di leggere le nostre carte e chiamarci per un ulteriore colloquio in cui farci le stesse domande (già documentate nel nostro carteggio). Ma vabbè, ormai hai fatto trenta e fai trentuno. Stai zitto e vai avanti. Dopo il giudice onorario, le carte dovevano passare al giudice di pace per il decreto definitivo, quello che avrebbe certificato che io e mio marito eravamo idonei ad adottare. Che non arrivava mai tant’è che pensammo che ci fosse qualcosa che non andava (in noi? Nei nostri documenti?). E non c’era verso di avere informazioni chiare. Poi però, dopo tanto, arrivò! Evviva! Ci sentivamo già genitori. Ma di cosa?! Di un’ansia colossale che la sera si sedeva sul divano a guardare la tv con noi.

E poi? L’attesa, di nuovo. Dopo il decreto (se hai fatto domanda anche per l’internazionale) hai un anno di tempo per decidere quale ente (no profit) autorizzato ti aiuterà a cercare tuo figlio all’estero. Nel frattempo sei papabile per l’adozione nazionale. Quindi aspetta, aspetta, aspetta. Ma non succede niente. Nel frattempo ti guardi intorno per capire a quale ente, qualora le cose vadano male per l’Italia, potresti rivolgerti. Inizi così a fare ricerche, modus operandi, probabilità di successo, in quali tempi e capire i prezzi proposti (ma tranquilla, i costi non dipendono dall’ente). E ci perdi giorni, settimane e mesi (perché non è una cosa da prendere alla leggera). Intanto ti spari anche qualche riunione di presentazione o qualche colloquio individuale (che ovviamente non si svolgono nella tua città). Qualcuno ti chiede anche quaranta o cinquanta mila euro, e tu svieni. Tutto regolare, eh! Alcuni Paesi esteri sono molto costosi non a causa dell’ente italiano, ma del Paese straniero stesso. Come a dire: lo so che sei tirato per il collo per cui ti devi frugare. Una f-o-l-l-i-a!

Dunque, sei lì che sta per scadere il tempo e vedi che dall’Italia non ti chiamano, per cui l’undicesimo mese dai mandato all’ente per l’adozione internazionale e go! Inizi un’altra odissea. Ormai sei entrata nel terzo anno, sei esausta e snervata. Ti sembra tutto così strano, insensato e malevolo. Lungo la strada hai dovuto fare i conti con te stessa e ti sei vista mentre abbattevi confini che neanche avresti pensato (etici, morali, ma perché no, anche economici, ecc.). Ma non hai finito. Anzi, in un certo senso devi ricominciare da capo perché il Paese dove hai deciso di adottare (praticamente tutti) richiede altri esami medici e altri documenti e ti sembra che la storia non finisca mai. Poi, quando finalmente sei in regola e spedisci tutti i tuoi documenti insieme a sangue, sudore, speranza, cosa succede? Ti metti in fila e aspetti perché davanti a te ci sono decine di altre coppie che hanno fatto domanda prima di te. Nel frattempo? Partecipi a tutti i corsi che l’ente ti mette a disposizione perché, primo non capisci la lingua di quel Paese e non pensare di cavartela con l’inglese perché sono zone povere e la gente a scuola non ci può andare (comunque avrai un interprete, non preoccuparti), secondo capisci che stai per diventare genitore di un bambino non più piccolissimo, probabilmente traumatizzato, per cui ti devi preparare non solo ad accogliere lui (o lei) ma anche ad accogliere la nuova te stessa che sarà (che, fidati, sarà molto diversa da ora perché l’esperienza ti farà superare nuovi limiti e ti tirerà fuori risolse che neanche pensavi di avere; ed è bene che ti prepari). Poi? Quanto ancora c’è da aspettare? Da uno a due anni di media (ma dipende da moltissimi fattori, per cui non prendere sul serio questo dato).

Praticamente c’invecchi a cercare di diventare mamma.

Capisci che alla fine sei letteralmente-emotivamente-nevroticamente sclerata! Poi la gente ti guarda e ti chiede: “Che hai? Ti vedo un po’ provata”. No, MACCHE’.